Era considerato una specie di santone, da molti un profeta, di sicuro un difensore dei deboli e degli oppressi.
Robert Nesta Marley, in arte solo Bob, musicista giamaicano famoso per aver reso popolare il reggae, di cui era il riconosciuto portabandiera, si spense l’11 maggio del 1981 al Cedar of Lebanon Hospital di Miami, a soli 36 anni, ucciso da un melanoma che si era rifiutato di curare, per seguire i dettami della sua religione, il rastafarianesimo. Sono passati trent’anni esatti e la sua stella non è mai tramontata, tanto che è stato commercializzato da poco un doppio cd inedito, “Live forever, che documenta l’ultimo concerto della sua carriera, tenuto nel settembre dell’80 a Pittsburgh. Come spesso è successo nel mondo dello showbiz, molti musicisti sono diventati delle icone più per la loro valenza sociale e politica che per i loro effettivi meriti artistici. Clash e Patty Smith, tanto per fare un esempio. Bob Marley rientra sicuramente nella categoria, anche se gli va comunque riconosciuto un discreto talento musicale. Di fatto, il suo merito è stato quello di portare alla ribalta planetaria il reggae, genere caraibico derivato dallo ska, una musica dal ritmo in levare molto in voga negli anni ’60, trasformandola in un canto per la sollevazione del sottoproletariato del terzo mondo, e riuscendo a renderla digeribile ai giovani bianchi, che diventarono subito il suo pubblico di riferimento. A dimostrazione, basta citare il memorabile concerto di San Siro del giugno del 1980, davanti a 100.000 persone.
Negli anni ’70, insieme alla sua storica backing band, i Wailers, nella quale aveva militato anche Peter Tosh, l’altra icona del reggae giamaicano, Marley portò in giro per il mondo un messaggio religioso, spirituale e politico allo stesso tempo. La sua religione identificava in Hailè Selassie I, l’ imperatore d’Etiopia, il Messia di Jah, ovvero il figlio di Dio.
Negli anni ’70, insieme alla sua storica backing band, i Wailers, nella quale aveva militato anche Peter Tosh, l’altra icona del reggae giamaicano, Marley portò in giro per il mondo un messaggio religioso, spirituale e politico allo stesso tempo. La sua religione identificava in Hailè Selassie I, l’ imperatore d’Etiopia, il Messia di Jah, ovvero il figlio di Dio.
Nel 1978 gli fu conferita, a nome di 500 milioni di africani, la medaglia di pace delle Nazioni Unite, e nel 1980 fu invitato a partecipare all’indipendenza dello Zimbabwe. Il suo messaggio di pace e di non violenza fece rapida presa sulle giovani generazioni, all’epoca alle prese con profondi sommovimenti politici e sociali. Troppo breve la sua carriera perché potesse realizzare una corposa discografia. Certo è che “Catch a fire”, “Exodus”, “Babylon By Bus” meritano di diritto un posto nel catalogo ufficiale della storia della musica contemporanea. Così come “I shot the sherif” (ripresa anche da Eric Clapton), “Redemption song”, “Get Up Stand Up”, “Jammin”, “No woman no cry”, che sono diventate degli evergreen della cultura afro-rock.
Coerentemente con la sua religione, che vietava di violare il corpo umano con delle lame (ragion per cui i rasta si facevano allungare a dismisura i capelli, raccolti poi in trecce chiamate dreadlocks), Marley non volle che gli fosse amputato un dito del piede per evitare che il cancro si diffondesse in tutto il corpo. Fu la sua auto-condanna a morte.
Coerentemente con la sua religione, che vietava di violare il corpo umano con delle lame (ragion per cui i rasta si facevano allungare a dismisura i capelli, raccolti poi in trecce chiamate dreadlocks), Marley non volle che gli fosse amputato un dito del piede per evitare che il cancro si diffondesse in tutto il corpo. Fu la sua auto-condanna a morte.
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